Maria Korolov
Contributing writer

6 ostacoli da superare per diventare un’azienda data-driven

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03 Sep 202317 minuti
Integrazione dei datiStrategia IT

Le aziende che adottano approcci orientati ai dati hanno la possibilità di ottenere risultati migliori rispetto a quelle che non lo fanno, ma sono ancora una minoranza. Che cosa ostacola questo processo?

7 understand assets and become data driven
Credito: Tinpixels / Getty Images

Il fatto che diventare data-driven sia in cima alle priorità di un’azienda, oggi, non è più una sorpresa. Un recente whitepaper di IDC ha rilevato che le società più attente ai dati hanno migliorato di tre volte l’aumento dei ricavi [in inglese] e la riduzione dei tempi di commercializzazione di nuovi prodotti e nuovi servizi, e hanno raddoppiato la probabilità migliorare la soddisfazione dei loro clienti, i profitti e l’efficienza operativa.

Tuttavia, secondo un sondaggio condotto a gennaio da NewVantage Partners tra i dirigenti che si occupano di dati e informazioni [in inglese], solo un quarto delle imprese si definisce data-driven, e solo il 21% afferma di avere una cultura dei dati al proprio interno.

Diversi fattori chiave contribuiscono a spiegare questo scollamento: l’80% degli intervistati ha indicato le questioni culturali come il principale fattore che impedisce loro di trarre valore dagli investimenti nei dati, mentre solo il 20% ha denunciato limiti tecnologici. Secondo gli esperti che hanno superato questi ostacoli in prima persona, ne rimangono altri.

Riconoscere i dati sbagliati

Anche la migliore delle strategie analitiche può essere vanificata se i dati che vi sottendono non sono corretti. Tuttavia, per risolvere i problemi di qualità dei dati è necessaria una profonda comprensione del loro significato e del modo in cui sono stati raccolti. Eliminare quelli duplicati può non rivelarsi un’impresa complessa, ma quando, invece, sono sbagliati, il problema si rivela molto più difficile da risolvere, spiega Uyi Stewart, chief data and technology officer di Data.org, un’organizzazione non profit sostenuta dal Mastercard Center for Inclusive Growth e dalla Rockefeller Foundation.

“La sfida della veridicità è molto più ostica e richiede più tempo”, tiene a precisare. “È qui che si rende necessaria una competenza di dominio che consenta di separare il vero dal falso”.

Le semplici abilità tecniche non sono sufficienti. È quanto ha scoperto Lenno Maris quando è entrato a far parte di FrieslandCampina, una cooperativa lattiero-casearia multinazionale, nel 2017, nel momento in cui l’azienda stava mettendo in atto un piano strategico per diventare data-driven.

Si trattava di una grande sfida. La società ha oltre 21.000 dipendenti in 31 Paesi, e clienti in oltre 100 Paesi. È apparso subito chiaro che la qualità dei dati sarebbe stata un grosso ostacolo.

Per esempio, l’inventario veniva realizzato in base al numero di pallet, mentre gli ordini si basavano sul numero di unità, racconta Maris, senior global director per i dati e le autorizzazioni aziendali. Ciò significava che il personale doveva effettuare conversioni manuali per garantire che le quantità giuste fossero consegnate al giusto prezzo.

Oppure, prendiamo i codici merceologici delle materie prime. Ogni stabilimento inseriva quello più adatto al prodotto, tutti diversi per ciascuna fabbrica, il quale veniva poi impiegato per recuperare le tasse di importazione e di esportazione. “Ma la rendicontazione fiscale viene effettuata a livello aziendale, quindi era necessario che tra queste informazioni ci fosse una coerenza”, prosegue Maris.

Per risolvere i problemi relativi ai dati, FrieslandCampina ha dovuto evolvere la propria organizzazione in materia. All’inizio del progetto, il team si è concentrato soprattutto sui dettagli tecnici del loro inserimento. E la situazione è cambiata rapidamente.

“Siamo riusciti a riqualificare il nostro team in modo che diventasse esperto di processi, di qualità dei dati e di dominio”, spiega Maris. “Questo ci ha permesso di passare a un’assistenza proattiva sui dati e di diventare consulenti per i nostri colleghi”.

Allo stesso modo, anche la piattaforma tecnologica scelta per aiutare l’azienda a migliorare la qualità dei dati, Syniti, ha dovuto adattarsi.

“Il prodotto è buono, ma è molto tecnico”, spiega Maris. “Per questo abbiamo avuto qualche problema con l’adozione da parte degli utenti aziendali. Così abbiamo cercato di darle un’interfaccia utente adatta a un impiego più esteso”.

Nel 2018 sono stati introdotti gli oggetti dei dati master di primo livello: fornitori, materiali, clienti e finanza. L’anno successivo si è passato agli oggetti-dati di secondo livello, tra cui contratti, distinte base, sconti e prezzi. Alla fine del 2022, la società ha completato l’orchestrazione dei flussi logici di business, e il progetto è stato completamente implementato. Il risultato è stato un miglioramento del 95% della qualità dei dati e del 108% della produttività.

“Prima dell’implementazione della piattaforma per i dati fondamentali, avevamo oltre 10.000 ore di rielaborazione delle nostre informazioni anagrafiche su base annua”, osserva. “Oggi, il tempo impiegato per questa attività è stato ridotto quasi a zero”.

La qualità dei dati era un problema anche per Aflac, come dichiara Shelia Anderson, CIO della società. Quando l’azienda ha iniziato il suo percorso per diventare data-driven, c’erano operazioni commerciali diverse tra i suoi vari portafogli.

“I sistemi di raccolta dei dati erano numerosi e presentavano incoerenze nel valutare la loro qualità”, spiega. Ciò rendeva difficile ricavarne informazioni utili. Per risolvere il problema, Aflac è passata a un approccio digital-first incentrato sul cliente, che ha richiesto il consolidamento dei dati in vari ecosistemi. Come conseguenza, la customer experience è migliorata e l’azienda è stata in grado di aumentare l’automazione dei processi e ridurre i tassi di errore.

“Un vantaggio significativo è stato rappresentato dal fatto che è divenuto possibile liberare risorse per gli agenti del servizio clienti, consentendo loro di concentrarsi sulle richieste di risarcimento più complesse che richiedono un intervento più personale”, afferma l’esperta.

Considerare il consolidamento dei dati come un problema tecnologico

Uno dei precedenti datori di lavoro di Randy Sykes ha trascorso otto anni a costruire un data warehouse, senza successo.

“Ciò è accaduto perché si è cercato di applicare le tecniche standard di sviluppo del sistema senza assicurarsi che l’azienda fosse davvero convinta della strada che si era intrapresa”, racconta.

Oggi Sykes è direttore IT dei servizi relativi ai dati della Hastings Mutual Insurance Co. Questa volta ha adottato un approccio diverso al consolidamento dei dati della società.

Dieci anni fa, l’azienda decise di riunire tutto in un data warehouse. All’epoca, la produzione dei report richiedeva 45 giorni e gli utenti aziendali non disponevano delle informazioni necessarie per prendere decisioni commerciali.

In primo luogo, i dati venivano raccolti in un’area di atterraggio tramite importazioni notturne in batch dai sistemi pre-esistenti. Poi si spostavano nel contesto di staging, dove venivano applicate le regole aziendali per consolidare e riunire i dati provenienti da sistemi diversi. Ciò ha richiesto una profonda comprensione del funzionamento dell’azienda e del significato dei dati. Questa volta, però, il progetto ha avuto successo perché nel team c’erano esperti della materia.

“Avevamo un paio di persone che lavoravano nell’azienda da molto tempo e che la conoscevano molto bene”, dice. “Per avere successo è necessario un team interfunzionale”.

Per esempio, i sistemi di polizze assicurative possono avere termini, aree di copertura e rischi diversi. Per far convergere in maniera efficace tutte queste informazioni, il team dei dati deve avere una buona comprensione del linguaggio aziendale e delle regole necessarie per trasformare i dati grezzi in un formato universale.

“Questa è la difficoltà più grande in cui si imbattono le aziende”, aggiunge. “Cercano di ottenere i dati e di metterli insieme tecnicamente, dimenticando la storia aziendale che sta dietro alle informazioni. Molto spesso questo tipo di progetti fallisce”.

Oggi, un report che in passato richiedeva 45 giorni può essere realizzato in 24 ore. Poi, man mano che i database si modernizzano e diventano event-driven, le informazioni saranno disponibili in tempo reale.

Nessun beneficio aziendale a breve termine

Una volta che Hastings ha iniziato a raccogliere i dati, il progetto ha iniziato a produrre valore per l’azienda, nel giro di un anno, anche se il data warehouse, iniziato nel 2014, è stato consegnato solo nel 2017.

Questo perché le aree di atterraggio e di staging stavano già fornendo valore in termini di raccolta ed elaborazione dei dati.

Secondo Sykes, i progetti sui dati devono fornire valore all’impresa durante tutto il processo. “Nessuno aspetterà per sempre”

Una simile “vittoria rapida” ha contribuito al successo di un importante progetto sui dati per Denise Allec, principal consultant di NTT Americas, quando era direttore dell’IT di una grande società.

Un progetto proof-of-concept di sei settimane ha dimostrato di avere un valore, dice, e ha aiutato a superare difficoltà come la riluttanza delle unità aziendali a rinunciare ai loro silos di dati.

“Fare a meno della conoscenza sulla proprietà dei dati rappresenta per molti una perdita di controllo”, spiega l’esperta. “L’informazione è potere”.

Questo tipo di accumulo di dati non è però limitato ai dirigenti.

“I dipendenti tendono a non fidarsi dei dati degli altri”, dice.

Vogliono convalidare e analizzare le proprie fonti, creare i propri strumenti di reporting in base alle rispettive esigenze.

“Abbiamo visto tutti i numerosi database duplicati che esistono in un’azienda e i problemi che possono derivare da questa situazione”, spiega.

Puntare su progetti che non hanno benefici immediati è uno dei principali ostacoli al successo delle iniziative sui dati, conferma Sanjay Srivastava, chief digital strategist di Genpact.

“Finché non lo si fa, si tratta di una discussione teorica”.

Il rovescio della medaglia è la scelta di iniziative che non hanno alcuna capacità di scalare, un altro ostacolo importante.

Senza la capacità di essere scalato, un progetto sui dati non avrà un impatto significativo a lungo termine, ma utilizzerà le risorse per un caso d’uso piccolo o idiosincratico.

“La chiave sta nel modo in cui si fornisce il valore aziendale in singole porzioni, in un lasso di tempo che mantenga l’attenzione delle persone e che sia scalabile”, tiene a precisare.

Non dare agli utenti finali gli strumenti self-service di cui hanno bisogno

Mettere al primo posto gli utenti aziendali significa fornire alle persone i dati di cui hanno bisogno nella forma in cui li richiedono. A volte, questo significa fogli di calcolo Excel. Alla Hastings, per esempio, il personale storicamente copiava e incollava i dati in Excel per lavorarci.

“Tutti usano Excel”, dice Sykes di Hastings. Ora diciamo: “Perché non vi diamo i dati, così non dovete più fare copia-incolla?”.

Ma l’azienda ha anche creato dei dashboard. Oggi, li utilizza circa un quarto dei 420 dipendenti, oltre alle agenzie esterne.

“Ora possono aiutare gli agenti a fare cross-selling dei nostri prodotti”, spiega. “Prima non era così”.

Ma fornire ai dipendenti gli strumenti analitici di cui hanno bisogno è tutt’altro che selplice. “Siamo ancora un po’ indietro”, dice. Ma con 200 dashboard focalizzati sul business, il processo è ben avviato.

Un’altra organizzazione che, recentemente, ha avviato il suo processo di democratizzazione nell’accesso ai dati è il Dayton Children’s Hospital di Dayton, Ohio.

“Cinque anni fa non stavamo andando molto bene”, dice il CIO J.D. Whitlock. “C’erano ancora molti fogli di calcolo. Ora usiamo lo stack di dati di Microsoft, come fanno molte altre persone. Quindi, se qualcuno sa, almeno un po’, come si usa PowerBI, possiamo fornire i dati appropriati, nel formato appropriato e con la sicurezza appropriata”.

Inoltre, i data analyst sono stati decentralizzati, in modo che le persone non debbano rivolgersi a un unico team per le loro domande.

“Diciamo che si vuole sapere quante visite ha eseguito il medico X l’anno scorso”, dice Whitlock. “È una domanda relativamente semplice. Ma se non si danno alle persone gli strumenti per farlo da sole, ci si ritrova con migliaia di richieste”.

L’introduzione di strumenti per la gestione autonoma dei dati ha aiutato l’azienda a trasformarsi in un’impresa data-driven. “Con l’avvertenza che si tratta sempre di un viaggio, e che non si può mai dichiarare vittoria”.

Non coinvolgere gli utenti finali nel processo di sviluppo

Ignorare le esigenze degli utenti è quasi sempre una ricetta disastrosa. Per esempio, Nick Kramer ha recentemente lavorato con un’azienda nazionale di servizi per la ristorazione che stava crescendo rapidamente, ma i livelli della sua offerta stavano calando. Lui è il leader delle soluzioni applicate di SSA & Company, una società di consulenza globale.

“Tutti puntavano il dito contro gli altri”, dice Kramer. “Ma il CIO non disponeva di dashboard né di report, ma soltanto di aneddoti e opinioni”.

Uno dei problemi era che il sistema centrale imposto era difficile da usare ed era ampiamente ignorato. I dipendenti aggiornavano i record, ma a posteriori.

“Ogni divisione, dal personale del reparto ordini alle vendite, fino all’ufficio legale, aveva i propri fogli di calcolo su cui basava la propria programmazione”, racconta Kramer. “Non c’era comunicazione e i dati non fluivano. Quindi bisognava andare ufficio per ufficio a scoprire chi stava facendo cosa e quanto bene, e quali ritardi erano irrisolvibili e quali potevano essere affrontati”.

La soluzione è stata quella di avvicinarsi agli utenti, per capire come venivano utilizzati i dati.

Joshua Swartz, partner di Kearney, ha vissuto, di recente, un’esperienza simile mentre lavorava a un progetto di consulenza con una società alimentare statunitense dal fatturato annuo di diversi miliardi.

L’azienda voleva consentire ai responsabili della produzione di prendere decisioni migliori su cosa produrre in base a dati reali.

“Per esempio, in un certo sito produttivo c’è una linea in grado di produrre tortilla chips o pane pita”, spiega Swartz. “Per ogni cambio di produzione, bisogna fermarsi, pulire e cambiare gli ingredienti”.

Il vecchio metodo prevedeva quattro ore per le tortilla e quattro ore per il pane pita, mentre i dati hanno dimostrato che sarebbe stato meglio dedicare due ore per ciascuna. E, poiché i prodotti alimentari sono deperibili, sbagliare la produzione significa buttare via un bel po’ di prodotto. Questo è accaduto perché quando l’azienda ha progettato la sua soluzione, gli addetti alla produzione non sono stati coinvolti, dice Swartz. “Erano troppo impegnati nelle attività operative quotidiane e non avevano tempo per fermarsi e partecipare alle riunioni”.

Non ci si aspettava che questo fosse un problema, perché la cultura dell’azienda era gerarchica. “Quando l’amministratore delegato dice qualcosa e batte i pugni sul tavolo, tutti devono seguirlo”, spiega.

Ma il nuovo sistema è stato utilizzato solo per un paio di settimane nel sito pilota e poi i dipendenti hanno scoperto che, per loro, non funzionava davvero, e sono tornati a fare le cose alla vecchia maniera. Inoltre, non ha aiutato il fatto che il responsabile dei dati dell’azienda si trovasse un paio di livelli più in basso nell’organizzazione tecnologica dell’azienda, invece che più vicino al top management o alle unità aziendali.

Per risolvere il problema è stato necessario portare i dipendenti effettivi nella suite di progettazione, anche se si sono dovute aggiungere capacità alle linee di produzione per liberare personale.

“Le aziende alimentari con margini molto ridotti non erano a loro agio nel fare questo investimento”, spiega Swartz. Ma, una volta entrate a far parte del processo, sono state in grado di contribuire alla soluzione e, oggi, un terzo o la metà delle strutture utilizzano la nuova tecnologia”.

Swartz consiglia anche di collocare il chief data officer in prossimità de dati più preziosi dell’azienda.

“Se sono un asset strategico, il CDO andrebbe collocato vicino alle proprietà dei dati”, continua Swartz. “Se invece l’impresa si concentra sull’utilizzo dei dati per l’efficienza operativa, il posto giusto potrebbe essere quello del COO”.

Un’impresa inserita nel mondo del commercio, invece, potrebbe voler collocare il Chief Data Officer sotto il responsabile delle vendite, o del marketing. Un’azienda di beni di consumo confezionati con cui ha lavorato aveva il CDO alle dirette dipendenze dell’amministratore delegato.

“Se si pensa ai dati come a un problema tecnologico, ci si scontrerà sempre con la questione del valore effettivo che si ottiene da essi e dalle analisi”, osserva Swartz.

Una mancanza di fiducia

L’uso responsabile dei dati è importante per il successo delle iniziative che li riguardano, e questa considerazione, nel contesto finanziario, è valida come in nessun altro settore.

“Nel comparto bancario, la fiducia è fondamentale”, sottolinea Sameer Gupta, chief analytics officer di DBS Bank. “Utilizzare, responsabilmente, i dati e i modelli è un fattore cruciale, e le considerazioni etiche devono essere rispettate durante tutto l’arco del loro impiego”.

Secondo il manager, l’uso dei dati, sia da parte degli individui che delle aziende, deve essere mirato, rispettoso e spiegabile, e non deve mai essere una sorpresa

Concentrandosi sulla fiducia, aggiunge, la banca è stata in grado di implementare l’IA e i casi d’uso dei dati in tutta l’azienda (260 nell’ultima rilevazione), dalle attività rivolte ai clienti, come l’attività bancaria per i consumatori e per le piccole e medie imprese, alle funzioni di supporto come la conformità, il marketing e le risorse umane.

“Nel 2022, l’aumento del fatturato derivante dalle nostre iniziative di IA e di machine learning è stato di circa 150 milioni di SGD [112 milioni di dollari], più del doppio rispetto all’anno precedente”, ha dichiarato. “Aspiriamo a raggiungere 1 miliardo di SGD nei prossimi cinque anni”.

Ma, guadagnare fiducia richiede tempo e impegno. Diventare un’azienda data-driven è praticamente impossibile senza di essa. Tuttavia, una volta che la si è guadagnata, inizia un circolo virtuoso. Secondo uno studio di CapGemini pubblicato a gennaio sulla gestione del cambiamento, nelle società che fanno un uso massivo dell’analisi dei dati, i dipendenti hanno il 18% di probabilità in più di fidarsi dell’azienda. E quando queste ultime devono evolversi ulteriormente, la probabilità di successo del cambiamento è dal 23 al 27% più alta rispetto alle altre.

“Molte persone, compresi gli esperti di dati, pensano che la maggior parte dei problemi nella transizione verso un’impresa data-driven siano legati alla tecnologia”, dichiara Eugenio Zuccarelli, data scientist presso un global retailer, ed ex ricercatore sull’intelligenza artificiale al MIT.

Ma le vere barriere sono di tipo personale, perché gli individui devono imparare a comprendere il valore delle decisioni data-based.

“Mentre facevo ricerca al MIT, ho visto spesso esperti e leader aziendali lottare per rendere un’impresa più orientata ai dati”, spiega. “I problemi principali erano di solito di natura culturale, come la convinzione che la tecnologia avrebbe preso il sopravvento sul loro processo decisionale, invece di dar loro potere, e la tendenza generale a prendere decisioni basate sull’esperienza e sull’istinto”.

Le persone devono capire che la loro esperienza è ancora vitale, aggiunge, e che i dati sono lì per fornire ulteriori input.

Così come le aziende devono smettere di pensare che diventare data-driven sia una questione tecnologica.

“Tutti i nostri clienti parlano di diventare più orientati ai dati, ma nessuno di loro sa cosa significhi”, dice Donncha Carroll, partner per la crescita dei ricavi e responsabile del team di data science di Lotis Blue Consulting. Si concentrano sulle loro capacità tecnologiche, aggiunge, e non su ciò che le persone saranno in grado di fare con i dati ottenuti.

“Non mettono al centro l’utente della soluzione”, conclude. “Molti team di analisi dei dati forniscono dashboard di dati che non sono né utili né utilizzabili. E il tutto finisce per morire sul nascere”.