Patrizia Licata
Di Patrizia Licata

Che cosa pensano i CIO italiani del modello low-code e che cosa accadrà con l’IA

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25 Sep 20235 minuti
Intelligenza artificialeApprocci allo sviluppoSenza codice e a basso codice
business
Credito: Cloudera

Entro la fine del 2024, le applicazioni in azienda verranno sviluppate per il 65% grazie a strumenti low-code/no-code. A prevederlo è la società di ricerche Gartner [in inglese], secondo cui la crescita è trainata da una nuova figura di esperti di tecnologia esterni all’IT, “business technologist” che si cimentano nella creazione di app, siti e strumenti di reportistica direttamente legati alla loro funzione aziendale. Non avendo competenze di sviluppo, hanno bisogno di componenti pronti e riutilizzabili, nonché di strumenti drag-and-drop, ovvero quei “mattoncini” (moduli di configurazioni e interfacce grafiche), offerti dalle piattaforme per lo sviluppo senza (o quasi) scrittura di codice sorgente. Gartner evidenzia che il 74% degli acquisti di tecnologia delle aziende sono, almeno in parte, finanziati dalle funzioni esterne all’IT.

In Italia questo approccio vede i CIO divisi tra scettici ed entusiasti. Per alcuni, infatti, non si adatta alle esigenze di sviluppo di applicazioni complesse o, comunque, ad aziende con alte competenze IT. Per altri CIO, al contrario, il vantaggio del low-code consiste proprio nel fornire una soluzione alla scarsità di specialisti; in più, rende veloce la sperimentazione e la distribuzione di nuove applicazioni mantenendo l’intera architettura IT agile e facile da aggiornare.

Oggi, nel quadro, si inserisce anche l’intelligenza artificiale (IA): secondo Forrester, farà evolvere rapidamente il set di strumenti per la programmazione agevolata e darà ancora maggiore impulso al mercato.

L’opinione dei CIO italiani sul low-code/no-code

“Abbiamo valutato il low-code, ma per ora non lo usiamo”, è l’esperienza di Roberto Puccinelli, Direttore Ufficio ICT del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). “L’impressione ricavata, anche nel confronto con colleghi che lavorano usando questo approccio, è che applicativi molto complessi non si possono sviluppare col low-code/no-code. Questo modello è più adatto per soluzioni veloci e problemi circoscritti e nei casi in cui il team IT non è numeroso o manca di alcune competenze”.

Anche Luca Caruso, CTO di Openjobmetis (Agenzia per il lavoro), è per ora scettico. Il team IT della sua azienda ha sviluppato internamente le proprie piattaforme enterprise – dal CRM al portale interno – utilizzando sia software comprati sul mercato e poi personalizzati, sia software sviluppati internamente, ma senza ricorrere al low-code/no-code. “Non mi sembra maturo per sistemi complessi”, afferma Caruso. “Dal mio punto di vista, va bene per un applicativo semplice, ma non come strumento aziendale. Inoltre, è un approccio che ha dei forti limiti nella personalizzazione. Il rischio è di andare incontro a difficoltà nel momento in cui il business richiede all’IT funzionalità molto precise o quando la crescita aziendale accelera”.

Le potenzialità dello sviluppo low code. Per molti, ma non per tutti

Opposta la visione di Massimo Carboni, CTO e vicedirettore del GARR, rete italiana a banda ultra-larga dedicata alla comunità dell’istruzione, della ricerca e della cultura, gestita dal Consortium GARR, fondato nel 2002 sotto l’egida del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. “Noi usiamo molto l’approccio low code no code”, afferma il CTO. “Ci permette di concentrarci su pochi elementi da sviluppare ex novo. Per il resto, riusiamo pezzi di codice già scritti dal nostro team o che fanno parte della base di conoscenza a disposizione di tutti gli sviluppatori. Per me è un modello che va in ottica di semplificazione”.

Carboni spiega che, quando si sviluppano componenti, soprattutto interfacce verso l’utente finale, si finisce con lo scrivere tantissimo codice e si inserisce molta complessità nelle architetture IT. Questo è un costo in termini di ciclo di vita del sistema, ovvero rende difficile farlo evolvere: l’aggiornamento può richiedere tempi lunghi che non sono sostenibili di fronte alla rapidità dell’evoluzione tecnologica.

Con l’approccio low code, invece, “si riduce il perimetro dell’azione dello sviluppatore mantenendo il risultato invariato”, sottolinea Carboni. “Si scrive solo un pezzetto di codice e, nel momento in cui arriva un’evoluzione, si cambia solo quel pezzetto, anziché tutto l’ecosistema. Il guadagno in velocità è enorme”.

Ma, al di là dell’entusiasmo, il CTO di GARR chiarisce: “L’approccio low-code/nocode non è per tutti. In particolare, non è adatto alle aziende che hanno una parte preponderante di sistemi legacy. Qui bisogna intervenire ridisegnando il sistema, disaccoppiandone le componenti e rendendolo API-first”.

Gli utenti non IT: opportunità o sfida?

La stessa Gartner sottolinea che le potenzialità maggiori per le imprese risiedono nel modello low-code, mentre quello no-code è limitato negli usi e nelle personalizzazioni. La società di ricerche stima che, entro la fine di quest’anno, il numero dei business technologist nelle aziende sarà almeno quattro volte superiore al numero dei professionisti dell’Information Technology, e suggerisce di dotare sia i professionisti dello sviluppo sia le figure non-IT di “una gamma di strumenti low-code per permettere all’organizzazione di raggiungere il livello di competenza digitale e velocità di distribuzione richiesta da un moderno ambiente agile”.

Ma è proprio qui la difficoltà, secondo Caruso di Openjobmetis: “Gli utenti finali devono essere maturi per capire questo modello o faranno fatica ad accettarlo”. In teoria le risorse aziendali sono in grado di contribuire al processo di trasformazione digitale dell’intera organizzazione, ma devono saperlo e volerlo fare.

E poi c’è l’intelligenza artificiale, una tecnologia talmente rivoluzionaria da modificare lo stesso modo di fare innovazione. Secondo Forrester [in inglese], i bot alimentati dall’IA e dal suo sottoinsieme generativo faranno evolvere gli strumenti low-code accelerandone l’adozione. La società di ricerca li definisce “TuringBot” e li sta studiando come mercato a sé stante, perché entreranno in misura crescente nell’offerta dei fornitori dedicata alle diverse esigenze delle imprese.

Patrizia Licata
Di Patrizia Licata
Scrittore Collaboratore

Giornalista professionista e scrittrice. Dopo la laurea in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, ho iniziato a lavorare come freelance sui temi dell’innovazione e dell'economia digitale. Scrivo anche di automobili, energia, risorse umane e lifestyle. Da una ventina d’anni collaboro con le principali testate italiane su carta e web.

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