Le direttive IT arrivano dall’estero, ma la filiale locale ha spazi di autonomia. Il compito del CIO (spesso un IT manager o un capo della business transformation) assume delle peculiarità: fare da ponte col dirigente della capogruppo, sviluppare progetti IT adatti al made in Italy e diffondere la cultura della trasformazione digitale in tutti i dipartimenti. Credito: Pekic In Italia esistono 15.631 controllate di multinazionali estere, provenienti da 107 Paesi (dati Istat al 2020). Come cambiano il ruolo del CIO e della funzione IT quando le strategie sono decise a livello di gruppo? Molto dipende dal settore industriale e dalla dimensione d’impresa, ma, in generale, i direttori dell’information technology hanno il delicato compito di tradurre a livello locale le direttive globali, e di muoversi negli spazi di autonomia lasciati alla filiale italiana. E, a volte, si tratta di spazi ampi, rispettosi del Made in Italy, come accade per Miko, società italiana fondata nel 1997 a Gorizia, ma successivamente acquisita dall’azienda statunitense Sage Automotive Interiors, a sua volta assorbita dalla multinazionale giapponese Asahi Kasei Corporation. “Inizialmente, Miko non aveva una figura specifica dedicata all’IT, ma la crescita internazionale del gruppo ha imposto una nuova organizzazione. Sono così entrato come IT manager per lo sviluppo della strategia e della funzione IT italiana”, afferma Cristiano Di Paolo, consulente interno settore IT di Miko. “In tre anni da zero risorse siamo passati a due con contratto a tempo indeterminato, una che si occupa di infrastrutture e l’altra per l’analisi dei processi applicativi, e stiamo pensando di assumere una terza persona. In questo ruolo collaboro strettamente con la Sage, dove c’è il nostro CIO di gruppo, e che ha spinto per avere anche un’area IT e un IT director a livello EMEA. Insieme ci allineiamo sulle strategie, ma Miko, per la peculiarità del nostro prodotto, mantiene una sua autonomia”. L’IT manager: un ponte tra l’Italia e la strategia di tutto il gruppo Miko si concentra sulla microfibra Dinamica e su una specifica fase della sua produzione, quella della tintura e del finissaggio. L’innovazione di questo tessuto simile al camoscio è legata all’innovativo processo di recupero del poliestere. L’azienda ha iniziato impiegando Dinamica nel settore dell’arredamento e della moda, ma, in seguito, il management ha deciso di dedicarsi in via pressoché esclusiva all’automotive. Da allora, per Miko è iniziata una forte ascesa, con clienti per lo più concentrati in Europa, e tra i marchi di fascia medio-alta. In questo contesto, il lavoro del manager dell’information technology è armonizzare le richieste della capogruppo con la realtà italiana. “La nostra peculiarità è che, avendo un prodotto di gamma alta, legato ancora a una fabbricazione con componenti semi-artigianali, siamo abbastanza autonomi sulle decisioni IT”, afferma Di Paolo. “Sull’infrastruttura ci sono policy di gruppo più stringenti dalle quali non possiamo e non desideriamo sviare, ma sullo sviluppo applicativo, pur osservando il coordinamento a livello di gruppo, siamo indipendenti e rispondiamo alle esigenze di business locali”. Per esempio, in ambito cybersecurity, servizi e policy sono armonizzati a livello globale, come nelle campagne di awareness anti-phishing per i dipendenti o nella gestione delle minacce cyber, e l’Italia non si differenzia. Ma l’IT nazionale può essere indipendente in alcune scelte sulle certificazioni. Così accade che, a livello di gruppo, si sia optato per la conformità allo standard ISO/IEC 27001, la norma internazionale che contiene i requisiti per impostare un sistema di gestione della sicurezza delle informazioni. Tuttavia, essendo i clienti di Miko per lo più europei, anzi tedeschi, Di Paolo ha concordato con il CIO internazionale la selezione della certificazione TISAX, sempre basata sullo standard 27001 ma più concentrata sugli elementi specificamente rilevanti per il contesto dell’industria automobilistica. “Facciamo quello che conta per i nostri clienti”, evidenzia il manager. Le scelte sull’ERP e la selezione dei software sul mercato Il discorso è analogo per quanto riguarda l’architettura applicativa. “Le aziende acquisite in Europa da Sage usano un ERP corporate, ma col CIO di gruppo abbiamo deciso di lasciar fuori Miko, perché ha caratteristiche diverse dalle altre società del mercato UE”, indica Di Paolo. “Sicuramente l’integrazione con l’ERP globale ci gioverebbe, perché risponde alle esigenze di un’azienda grande. Tuttavia, non sono convinto che questo prodotto risponda alle nostre necessità, perché il processo produttivo di Miko è una sorta di alta tintoria artigianale con elementi di industrializzazione e non esiste sul mercato un sistema così specifico da soddisfare queste caratteristiche”. Il tessuto offerto da Miko, infatti, potrebbe essere richiesto in grandi volumi da una casa automobilistica, e in piccoli numeri da un’altra che serve il mercato del lusso. Le richieste sono, inoltre, variabili anche in base al colore e, spesso, comportano una tempestiva evasione dell’ordine. “Ci serve una grande flessibilità, sia come produzione interna che come controllo dei fornitori sulla supply chain. La scelta concorde, per ora, è di cercare di migliorare l’ERP attuale integrandovi alcune applicazioni con un approccio modulare e, solo in una seconda fase, migrare nel nuovo sistema, inserendovi servizi e applicativi software che si occupano di aree specifiche, come il collegamento con la piattaforma MES (Manufacturing Execution System)”. Qui il ruolo di Di Paolo è sia quello di selezionare elementi software sviluppati in passato sia di scegliere i prodotti da comprare sul mercato, perché al momento, per policy aziendale di gruppo, l’IT di Miko non fa sviluppo software. “Dal mio punto di vista, è una scelta corretta: viste le stringenti esigenze di compliance che abbiamo, è più sicuro affidarsi a prodotti disponibili sul mercato, evitando rischi e costi eccessivi”, conclude il manager. Alla ricerca di un cambiamento culturale Tra le sfide dei CIO di società italiane che sono parte di multinazionali c’è, in primo piano, quella legata al cambiamento organizzativo. L’adozione di nuovi processi in base alle direttive della capogruppo estera implica, in molti casi, che le risorse che prima rispondevano a un manager italiano ora dipendono dall’IT globale. E così, le persone diventano responsabili dello svolgimento di un processo trasversale a più dipartimenti, anziché semplicemente rispondere al “capo” del team in Italia. Questo adattamento culturale non sempre è facile, come evidenzia Alessia Scarpa, Innovation & Sales Director di Risorse (Agenzia per il lavoro). “Oggi occorrono competenze trasformative, perché ci sono grandi trasformazioni in atto”, afferma la top manager. “Le aziende hanno bisogno di un nuovo modo di pensare e di fare, inserendo nei team persone con una mentalità digitale e agile per agevolare il cambiamento”. La digitalizzazione, infatti, è come una nuova rivoluzione industriale: “Dopo che le persone hanno dovuto imparare a lavorare con le macchine, oggi devono apprendere come lavorare ai ritmi del software e del processo”, sottolinea Marco Andreini, Business Transformation Manager di Sto Italia, filiale del Gruppo Sto, player del settore dell’isolamento termico che crea e commercializza prodotti innovativi per l’edilizia sostenibile (rivestimenti per interni, sistemi per facciate, pareti e controsoffitti, tinture). Dal 2020, Sto Italia, in base alle direttive di gruppo, si sta fortemente digitalizzando, implementando soluzioni e piattaforme per il cloud, la collaborazione, l’e-commerce e la gestione delle operation. “La sfida per noi è nell’adozione di questi strumenti: imparare a lavorare in modo nuovo e in team organizzati in modo diverso. In una parola: pensare in termini di processo. Questo cambiamento coinvolge non solo il team IT, che in Italia è molto ristretto, ma tutta la filiale”, sottolinea Andreini. Digital transformation è portare le persone verso i nuovi processi Un esempio è legato agli strumenti di collaborazione: “Spesso nelle aziende si mandano email con una serie di persone in copia. Succede anche da noi, nonostante sia stata svolta a proposito una specifica attività di formazione. Questa prassi, tuttavia, rivela una scarsa chiarezza nei ruoli e nelle nuove responsabilità. Le persone tendono a continuare a lavorare come hanno sempre fatto, anziché semplificare, come è negli obiettivi della digitalizzazione”, afferma Andreini. Anche l’adozione di Salesforce ha imposto una sfida, prosegue il Business Transformation Manager di Sto Italia: “In passato molto del lavoro veniva svolto via email e su fogli Excel e c’è stata una resistenza nei confronti dei nuovi strumenti, soprattutto quelli di data analysis. Al fine delle analisi, alcuni dati vengono preparati dalla casa madre, ma noi dobbiamo aggregarli e gestirli in base alle peculiarità del mercato italiano. E formare la cultura del dato non è facile. Non è questione di età, ma di attitudine a cambiare i processi”. Per questo le imprese cercano attentamente le competenze soft, evidenzia Alessia Scarpa: “Capacità di adattamento, lavoro di squadra, problem solving e pensiero critico sono fondamentali. E sono proprio queste le skill su cui abbiamo incentrato la nuova edizione dell’hackathon digitale Smart&Hack Pavia 2023, in cui facciamo incontrare le esigenze delle imprese alla ricerca di talenti con quelle delle università che formano le competenze”. La funzione IT ha, inoltre, le sue specificità e complessità:“Si tende a lavorare più ore da remoto, soprattutto quando si fa sviluppo, e ciò non sempre permette di valorizzare al massimo le persone e di comunicare al meglio i valori aziendali, soprattutto nei confronti dei giovani o dei neo-assunti”, osserva Scarpa. Per questo, secondo l’esperta, è importante che il CIO collabori con l’HR per organizzare occasioni di incontro e coinvolgimento in presenza e favorisca team multi-generazionali che permettono un proficuo scambio di conoscenze acquisite e idee nuove. 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